(da Ameglia Informa di aprile 2014 e segg.)

La storia di una città si può conoscere anche attraverso i nomi delle sue strade, che rispecchiano il momento storico in cui essi si assegnavano.

Propongo questo tema per La Spezia, non perché desideri attribuire una qualche preminenza al Comune capoluogo (c’è chi vanta lombi ben più nobili e antichi) ma, perché credo che ripercorrere le tracce di quel passato serva a meglio comprendere il cammino che tutto il territorio ha percorso.

La toponomastica stradale della Spezia lo ripete in grosso modo quattro tappe:

  • le origini del borgo incentrato sulla via Prione;
  • il boom dell’Arsenale ricordato, con le vie che hanno il nome di quanti lo costruirono, Chiodo in testa, anche con l’epopea risorgimentale che rese possibile la venuta dello stabilimento militare;
  • l’epica resistenziale che dà i nomi dopo la seconda guerra mondiale;
  • infine, le vie chiamate con i nomi dei protagonisti della grande ripresa cittadina dopo le distruzioni della guerra, dati quando 40 anni fa, per la grave crisi degli alloggi, si trovarono in posti mai pensati tali, zone residenziali in cui sorsero nuove strade.

Certo anche i nomi possono essere mutati nel tempo, cambiati o sovrapposti, facendo ulteriormente perdere la comprensibilità storica delle antiche vie. Esemplare è il caso di quella che oggi chiamiamo via Gioberti, stretta e non lunga strada che da via del Prione va a via Da Passano.

Il nome che oggi porta risale al periodo risorgimentale (Gioberti fu presidente del Consiglio del Regno Sardo nel 1849). Ma quanti sanno che prima era intitolata a Dante, sì così solo con il nome del Poeta, che d’altronde è difficile scambiarlo con un altro?

Ancora più difficile è sapere che in precedenza la chiamavano “ver dietro”, nome ermetico dietro al quale si celavano, secondo me, i tanti orti e giardini che stavano alle spalle. Era il verde dietro le case degli Oldoini, dei De Nobili, dei Castagnola, la fuga dei tre bei palazzi patrizi che adornavano il Campo degli Agostiniani, il lungo slargo che traeva il nome dal possente convento che era là, e che noi oggi chiamiamo piazza Sant’Agostino.

Il fatto, io credo, è che gli Spezzini, purtroppo troppo spesso, specie i più giovani, camminano per le vie cittadine senza rendersi pienamente conto del significato storico, e quindi politico, del selciato che pestano.

Così oggi, ad esempio, ci capita di andare nella piazzetta Loggia dei Banchi, ma quanti sanno che quel piccolo slargo, oggi quasi anonimo (mi dicono più popolato solo quando gli anziani si coricano), era qualche secolo fa ricco di vita e di un’animazione che a dirla oggi rischia di far sorridere l’interlocutore incredulo?

Sapere la storia del passato e del territorio che si abita, da sempre affermo, aumenta in chi la conosce la consapevolezza identitaria: sa da dove viene, può sapere meglio dove andare. Ecco perché storico è, come ho appena detto, sempre politico: perché sono i rapporti fra i membri della polis, fra i cittadini, che dalla conoscenza sono rivitalizzati. (segue)

Alberto Scaramuccia

(da Ameglia Informa di maggio 2014)

“Vecia Speza” dei tempi, potremmo canticchiare adattando ad oggi il famoso motivetto di qualche anno fa. Già, ma dei tempi di che cosa? Beh, potremmo dire dei Quattro Canti “ch’ ieo er sentro dea Speza de na vota”, dove si svolgeva la vita diurna e la movida alla notte.

Erano un’area di cui temo troppi abbiano perso la memoria. Grosso modo era il crocicchio dove via Prione incontra la via della Pia. La chiamo così per farla identificare all’istante; dicessi via Magenta, metterei in crisi più di uno.

Da un lato c’è questo convegno; dall’altro la strada cambia nome in Sforza e immette in piazza Sant’Agostino.

Se non era molto grande “a Speza aloa”, murata com’era nel ristretto giro di quattro bracci, i suoni che vi nascevano rimbalzavano per ogni dove dentro a quel rettangolo chiuso portando i sentimenti che li animavano: gioia e serenità come afflizione e inimicizia, la vita. Su tutto sentivi il fruscio tintinnante dei pozzi: da quello appena sopra, sul Poggio, a quello al piano. Questo, che dicevano del gallo, c’è ancora, minuscola fontanina dove oggi si abbeverano cani, piccioni e gavettoni, all’apertura di piazza Sant’Agostino.

Subito a basso, la Loggia dei Banchi, il centro commerciale di quegli anni distanti.

Lì si consumavano affari, nascevano amori, si spendevano sentimenti e si praticavano affetti fino quasi a dilapidarli. Nulla di inconsueto: succede così ovunque, in ogni crocicchio del pianeta degno di questo nome. Quella situazione chi l’immaginerebbe oggi? Gali è che la ristrutturazione imposta dal triennio del colera (dal 1884 all’86), ha portato via gli antichi colori.

Non ne ha cancellato, però, la memoria che qualcuno, tramandando chi siamo stati, ancora coltiva per mantenere l’identità che, una volta che la si sia smarrita, si fa poi fatica a recuperarla. Ma non è che poi sia impresa tanto ardua: il tempo non lo si perde se lo si vuole veramente ritrovare. Basta che l’intenzione sia seria. Se veramente la è, puoi anche ritrovare delle nicchie ormai dimenticate, che tuttavia oggi sono delle chicche: per ripensare a ieri e per pensare a oggi.

Così, senza andare tanto lontano, ti imbatti in uno stretto budello, lungo circa 13 metri e per di più neppure molto pulito. Collega le vie Sapri e Unione e, se la prima è nota, sapere dell’esistenza della seconda non è cosa da tutti. Siamo in uno di quei luoghi che la ristrutturazione di fine Ottocento ha sconvolto, declassando, se non addirittura cancellando, aree dove lo struscio prima era di moda.

Quel bugigattolo di passaggio, oggi di forma rettangolare, era un tempo una galleria con copertura a tutto tondo o, come dice chi ne sa, voltata a botte. Intitolato alla famiglia Cambiaso, la dicevano, oltre che galleria, anche volta o volto. Era arricchita da mensole e da cornici di arenaria; aveva un aspetto gradevole che attirava. Questo era il suo stato, anche se è difficile, vedendo l’attuale, credere il passato.

“Vecia Speza”: cerchiamo di non farla essere solo un bel ricordo e nulla più.

Alberto Scaramuccia

(da Ameglia Informa di giugno 2014)

Nel 1984 Fabrizio De Andrè pubblica un bellissimo LP (allora il vinile era principe di ogni musica) dal titolo un po’ enigmatico: “Crêuza de mä”, un sentiero che si snoda fra le onde e che permette al cantautore di sviluppare un suo discorso sulle tante sonorità del Mediterraneo.

La parola inconsueta, crêuza, s’impone subito all’attenzione di tutti da tanto che è poco comune.

Però, è vocabolo antico, diffuso in tutto il settentrione dove, pur con esiti leggermente diversi, indica la stradina stretta ed incassata fra i campi che marca il confine fra le diverse proprietà. Infatti, gli studiosi ne trovano l’origine nell’aggettivo corrosum, per essere altrettante venature infossate, stradine affondate nel terreno. 

Nello spezzino il termine diventa “crosa”, ma conosce anche un’ulteriore modificazione nel nome di una viuzza che porta alla Madonna dell’Olmo sopra Fabiano che si chiama via della Scresa. Ignoro il perché di questo mutamento, però mi piace portare l’esempio di questa stradina per dire che dalla toponomastica stradale impariamo quale era un tempo l’aspetto del territorio: lì, ovvio, si sviluppava uno degli strani modi con cui si dividevano le proprietà fondiarie.

Questo che dico, è solo un esempio, ma di casi simili ce ne sono davvero tanti. Il fatto è che siamo tanto abituati a vederli e a sentirne il nome, che abbiamo, quasi paradossalmente, dimenticato perché si chiamano così. Proprio vicino alla nostra crosa, ad esempio, ci sono i Buggi che sono il nome di una zona, oltre che di una strada. Ai Buggi c’erano i buchi, tante piccole caverne, fenomeni carsici che rappresentano gioia e delizia degli speleologi.

Tutto semplice, dunque, se non fosse che i Buggi ci presentano un altro problema, questa volta di origine linguistica. Il dialetto spezzino infatti, cosa che del resto è comune al nord, scempia la geminata, non pronunzia cioè la doppia.

Dovrebbe quindi essere Bugi, con una “g” sola, e invece ce lo ritroviamo con due. Gli studiosi ci spiegano questo altrimenti insolubile problema come tipico esempio di “errore dotto”. I geografi genovesi, incaricati di stendere le mappe del territorio, venivano nella zona che dovevano rappresentare e, oltre a compiere le misurazioni, chiedevano agli indigeni i nomi dei luoghi.

Questi rispondevano giusto, con una consonante sola, ma i geografi, che erano dotti avendo studiato, sapendo che il dialetto scempiava, attribuivano alla località la doppia. Volevano evitare un errore e invece lo commettevano.

È l’identica cosa di, altro esempio, i Vicci che, derivando dal latino vicus, villaggio, erano rigorosamente con una sola “c” che viene raddoppiata dal troppo scrupolo dei solerti cartografi.

E questo è nulla perché questi sfortunati (per il nome) villaggi sui colli, nel secolo scorso (fino a non molto tempo fa, quindi) erano detti anche Vicchi o Vicchio con l’ulteriore problema che una “c” palatale, cioè dolce come ciliegia, diventa gutturale, dura, come chiesa.

Ma guardate un po’ dove ci portano le strade!

Alberto Scaramuccia

(da Ameglia Informa di luglio 2014)

Le strade sono vie di comunicazione, in ogni senso. Non servono solo per muoverci o per il trasporto, ma sono (possono esserlo, basta che lo si voglia) anche occasione di memoria. Infatti, quel cammino più o meno lungo che si compie per le strade contadine, può suscitare l’emozione di una scoperta, quasi fosse la gioia di un incontro inaspettato o il ritrovare l’amico caro che non si vede da tempo.

In quell’occasione, riscoprire qualche cosa, significa forse, soprattutto riscoprire sè stessi. Non per quello che sei, ma per quello che sei stato ancora prima di nascere, che altri hanno fatto per sé ma anche per noi. Ritroviamo un’eredità preziosa che ci è stata lasciata, ma che forse troppo spesso non siamo stati capaci di utilizzare al meglio, può darsi che neppure la si sia mai conosciuta.

Questa che espongo è una mia idea fissa. La dico ogni volta che posso e mi scuso se la ripeto ancora. Ma sono davvero convinto che la conoscenza del passato del territorio che abitiamo ci fortifica nel sentimento di appartenenza, ci fa crescere nella consapevolezza identitaria, ci fa meglio capire chi siamo perché ci aiuta a comprendere da dove veniamo.

Le nostre radici: non c’è pianta, per quanto piccola possa essere, che ne sia priva. Senza non nasce, non vive. Anzi, non esiste proprio.

Quasi dove via fratelli Rosselli (che era via Duca di Genova) sfocia in viale Amendola (che era viale Savoia), si apre un budello maltenuto a fondo cieco. Avanza verso l’interno per circa una quindicina di metri dove poi sterza brusco a destra per qualche metro ancora. Là non ci sono portoni di abitazioni, ma solo ingressi di magazzini, immagino degli operatori della vicina piazza che ufficialmente si chiama Cavour, ma che tutti da sempre dicono del mercato.

Questo di cui parlo è un vicoletto che si chiama della Sprugola e ricorda che lì, prima che l’Arsenale la deviasse e la interrasse, c’era un grande laghetto con quel nome. Gli studiosi sostengono che derivi dal latino spelunca: la caverna da cui si pensava che le tante sprugole del territorio nascessero: Confesso che io di queste cose sono assai poco competente, ma ho sempre pensato che sprugola derivi dall’antica onomatopea sprr…zz, da cui vengono nell’italiano sprizzo e spruzzo, e nell’inglese spring, sorgente.

La Sprugola, quando c’era, era un bell’invaso che i nostri antenati passavano con un traghetto che dall’una li portava all’altra sponda: anche noi abbiamo avuto un passatore anche se ignoro quanto fosse gentile.

La presenza della Sprugola è ricordata anche nel palazzo dirimpetto che nella facciata di via Colombo ha due ninfe in bassorilievo e una scritta in latino che celebra la divinità indigena delle acque che lì risiedeva e che rendeva cittadino consapevole, chiunque s’abbeverasse alla sua fonte.

Insomma, c’era tanta acqua, ma ciò non impedì che proprio su un ramo della Sprugola si facesse un palazzo che venne poi evacuato in tutta fretta ed abbattuto: non stava in piedi.

Non sapevano la storia del territorio.

Alberto Scaramuccia

(da Ameglia Informa di settembre 2014)

In via del Prione, più o meno all’altezza del vicolo della Sprugola di cui abbiamo detto la volta scorsa, si apre una risega a fondo cieco. La trovi tra un antico negozio cinese di pelletteria e uno moderno che vende abbigliamento femminile nell’ampio locale dove per decenni stava Argiroffo, antica stamperia spezzina.

Quella risega di cui diciamo si chiama vicolo dello Stagno e ha al suo termine un alberghetto ristrutturato qualche anno fa. Se poi andiamo verso monte, dopo piazza Ramiro Ginocchio (chi era costui? la lapide dice che morì per una ferita al piede: nel cognome portava il suo destino) troviamo via dei Mulini: tanto anonima oggi, quanto piena di vita quando lì era situato il mulino Federici.

Lo alimentava l’acqua che abbondante e pulita scendeva dalla Chiappa e che in parte poi si fermava dopo pochi metri, ristagnando a formare la piccola area paludosa la cui memoria oggi resta solo nella viuzza che a quell’invaso probabilmente putrido, è intitolata.

Però, il mulino Federici era veramente importante, tanto notevole che lo ritroviamo ben segnato anche nelle carte geografiche, come la famosa di Matteo Vinzoni del 1773, che del territorio non fanno un’analisi dettagliata nei particolari.

Ma il fatto è che tutta la zona era, ed è tuttora, ricca di acqua buona che ci si accorge di quanto sia gradevole solo quando si va in un’altra città verso cui madre natura non è stata generosa come nei nostri confronti.

Mi è capitato di vivere a Firenze, la amo, appena posso ci torno, ma non riesco mai a sciacquarmi le mani. Il sapone non se ne vuole andare, sembra che si sia incollato alle dita. Sarà perché la pescano da sotto l’Arno? Però, con l’aigua de-a Speza, i ne m’è mai capità. Lasciamo perdere e continuiamo nella nostra passeggiata ancora per qualche passo, presto arriviamo nella piazza Brin, l’area del quartiere operaio.

Lì ogni palazzo delle case comunali è provvisto alla base di fondi che gli inquilini utilizzano come cantine. Tuttavia, anche se nessuno lo ricorda, non era questa la destinazione originaria. Le pensarono, infatti, come camere di compensazione per contenere l’umidità indotta dall’acqua che sale lungo i muri per capillarità.

Del resto, tutta quella zona lì era un grande acquitrino. La abitavano gli Ariani e per questo la chiamavano Piandarana. I batraci non c’entravano per niente, ma sai quanti dovevano essercene a gracidare ininterrottamente prima che parte della terra di risulta degli scavi dell’Arsenale, non colmasse tutte quelle pozzanghere!

Del resto, ancora oggi, nella chiesa, nel pavimento di larghe mattonelle quadrate, ce n’è una presso l’Altar maggiore munita alla sommità di un anello che i tecnici periodicamente sollevano per controllare il livello delle acque sottostanti. Questa è la situazione. Eppure, in un palazzo lì nei pressi, hanno concesso l’abitabilità ai fondi dove l’acqua presente trasudava per capillarità. Con tutte le conseguenze del caso. Capite perché le strade sono occasione di memoria?

Alberto Scaramuccia