(da Ameglia Informa di giugno 2018)
Nella foto la Exodus 1947 in ristrutturazione a Porto Venere
Il titolo del libro di Paolo Bosso, premio speciale all’Exodus 2018, è di per sé già molto eloquente nel raccontare l’impegno degli italiani, ed in particolare di quelli delle nostre parti, all’Aliyah Bet, la seconda “salita” alla Terra Promessa.
Un periodo epico, questi quattro soli anni fra il 1945 e il 1948, che videro dopo diciannove secoli di Diaspora il ritorno a casa settant’anni fa degli ebrei, dall’uscita dai campi di sterminio alla nascita dello stato d’Israele.
Il termine Aliyah Bet riassume in sé almeno tre significati:
1 – il riferimento all’Esodo, la prima salita degli ebrei liberati dalla schiavitù egiziana ai tempi di Mosè;
2 – il richiamo al sionismo, dopo le prime ondate migratorie tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento;
3 – l’abbreviazione dell’espressione “Aliyah Bilty Legalit” (immigrazione illegale): in pratica o si immigrava legalmente in una Palestina ancora sotto mandato britannico, con tutte le restrizioni del famigerato Libro Bianco, oppure si ricorreva ad un piano “B” alternativo, quello appunto dell’arrivo clandestino.
Paolo Bosso dichiara subito di aver ereditato dal padre Michele questa passione storica che lo ha portato a consultare molte decine di testi cartacei e di siti web.
Ne è uscita una mole impressionante di dati che hanno mappato 66 viaggi illegali con cui sono stati trasportati da una sponda all’altra del Mediterraneo 70.428 ma’apilim, “coloro che salgono alla Terra Promessa”.
Le cifre raccolte da Bosso parlano molto chiaro in termini di proporzioni: la Liguria è stata in assoluto quella che ha dato il maggior contributo all’Aliyah Bet, con l’allestimento di 20 navi e l’esecuzione di 26 partenze per un totale di 22.757 passeggeri. «In percentuale – conclude Bosso – il 32,31% del totale dei ma’apilim dell’Aliyah Bet viaggiò su navi allestite nella Regione Liguria e il 25,97% su navi allestite nel Comune di Porto Venere. Sono numeri rilevanti che non possono passare sotto silenzio».
Non solo il Comune della Spezia ma anche quelli di Portovenere e di Ameglia hanno così dato un grandissimo contributo qualitativo e quantitativo all’Aliyah Bet.
In particolare Ameglia con 4.314 persone imbarcate in sette partenze.
Forse, settant’anni dopo, è arrivato il tempo di rendere il giusto riconoscimento a questa pagina di storia che ha visto il Levante ligure come coraggioso protagonista.
Maria Luisa Eguez
Il contributo di Ameglia alla riuscita dell’AliyahBet
Trovato e reso operativo il cantiere di Porto Venere (dove venivano ristrutturate le navi destinate a trasportare i profughi ebrei in Palestina) Yehuda Arazi, seguendo il suggerimento di persone locali, si recò alla foce del fiume Magra per valutare se il posto fosse idoneo ad imbarcare le persone sulle navi ormeggiate al largo a mezzo di scialuppe e non più da banchine abbandonate.
Il luogo si rivelò perfetto. La profondità del fondale avrebbe permesso di arrivare molto vicino alla costa e di ancorarsi in prossimità della località conosciuta come Punta Bianca, ancora cosparsa di mine, ricordo della Linea Gotica, quindi ovviamente disabitata. L’incontro con i barcaioli amegliesi fu molto proficuo perché si resero subito disponibili a traghettare i partenti dalle passerelle presso la foce del fiume alla nave, con i loro barconi a motore, adibiti in genere ai trasporti locali tra il golfo della Spezia e Viareggio, in grado di trasportare trenta o quaranta persone a volta.
Infine, a rendere il luogo perfetto da ogni punto di vista furono dei bei prati, riparati dai canneti, che agli abitanti della zona fu spiegato che si trattava di profughi ebrei che dopo tutto quello che avevano sofferto, necessitavano di buona aria marina e, trattandosi di una colonia estiva, era più che normale che la gente si alternasse. Come per Porto Venere anche la popolazione amegliese fu ben lieta di ospitare ed aiutare, dove possibile, questa gente tanto gentile e discreta.
Per dirigere ed organizzare questo campo, Arazi mandò un suo uomo fidato, Chaim Chayat, ex della Brigata ebraica, membro della Gang, aiutato da Arnon Yaakov. I profughi giungevano a piccoli gruppi alla Spezia a mezzo corriere o con il treno; non soggiornavano che per pochi giorni, il tempo necessario per istruirli all’imbarco ed al viaggio. I Carabinieri della stazione di Ameglia, Comune cui fa capo Bocca di Magra e Fiumaretta, erano stati informati dai diretti superiori di non curarsi di quanto accadeva nel campo climatico e di eventuali imbarchi notturni, ma anzi di essere, per quanto possibile, comprensivi e collaborativi con i profughi.
Carlo Germi, proprietario della pensione ristorante “Sans Façon” di Bocca di Magra, era solito raccontare agli ospiti di come era stato ingaggiato dalla signora Ada Sereni per trasportare, con la sua barca, gli scampati della Shoah fino alle navi. Ricordava che Ada aveva un bel caschetto di capelli neri e belle gambe. Le mostrava perché portava sempre i calzoni corti, aveva un bel sorriso e questo era sempre un bel segno.
Tra giugno e luglio del 1946 le prime navi ad essere trasformate nel cantiere del-l’Olivo furono il Maria Serra, conosciuto anche con il nome di Avanti, un due alberi in legno, varato nel 1920 di 335 tonnellate lorde, ed il San Sissimo, già Giuseppe Bertolli, una barca in legno, varato nel 1921 dal cantiere Picchiotti di Viareggio, di 283 tonnellate lorde, acquistato dall’armatore Tornei di Viareggio.
Vennero allestite seguendo gli schemi dell’Ing. Morpurgo; furono tolti i punti di carico originali e fu creata un’incastellatura in legno necessaria ad offrire un letto anch’esso di assi di legno (foto sopra). La cosa che stupì di più le maestranze del cantiere fu il poco spazio tra un giaciglio e l’altro, poco più che 50 cm. Qualcuno di quei ragazzi di allora li ricorda ancora come dei loculi. Venne loro spiegato che le persone vi avrebbero soggiornato a rotazione perché non vi era posto per tutti e vi si sarebbero sistemati in posizione fetale, cosicché potesse essere accolto un numero maggiore d’individui.
Vennero creati, in poco tempo, tutti i servizi igienici, la cucina, la cambusa, cisterne per l’acqua, la stazione radio e tutto il necessario per la vita a bordo di centinaia di persone…
Il Mario Serra ed il san Sissimo furono allestiti quasi in contemporanea per dar seguito al progetto che prevedeva il viaggio dei profughi ripartiti su due navi, per rendere così la traversata più sopportabile. Le partenze sarebbero avvenute in rapida successione ed in prossimità della costa Palestinese, prima del probabile intercettamento da parte della Royal Navy, i ma’apilim sarebbero stati trasbordati su un’unica nave (foto sopra). In questo modo, oltre a far rientrare un bastimento utile per una nuova futura partenza, si sarebbe fatto rientrare anche l’equipaggio della nave destinata a forzare il blocco lasciando il comando al personale del Palyam presente a bordo…
Estratti dal libro ”Ci chiesero di chiudere un occhio, ne chiudemmo due” a cura di P. Bosso