PARTE 1^

a cura di Sergio Marchi e Maria Grazia Picedi

Gli autori hanno riunito e ampliato in questa ricerca storica gli articoli pubblicati su Ameglia Informa e Lerici In… dal 2009 al 2013

L’introduzione a questa materia, ricalca il documento già proposto nel 2011 sul periodico Cronaca e Storia di Val di Magra. Quindi, coloro che già ne hanno avuto contezza, possono saltarla a piè pari e leggere il seguito, a meno che non vogliano giovarsi di una rinfrescata sul tema. Ai nuovi lettori, si consiglia invece, in quanto fondamentale per comprendere il contenuto di ciò che seguirà ad essa.

Una definizione essenziale di tavoliere, ce lo descrive come un “Tavolo da gioco per la dama, scacchi o dadi”. In effetti, i giochi in questione sono solo di due tipi.

Il primo tipo, è il gioco di allineamento, in pratica il filetto in tre varianti (tria, filetto con le diagonali, filetto semplice). Il secondo tipo, è il gioco di cattura, come l’alquerque (uno degli antenati della dama, insieme agli scacchi) e il gioco del lupo e delle pecore (derivato da quello romano dei “latrunculi”).

La pietra, a cui fa riferimento il titolo, solitamente è l’arenaria, ma sono anche presenti incisioni su marmo e su ardesia. Le incisioni su marmo, a parità di condizioni (agenti atmosferici, inquinanti e calpestio), sono più durature di quelle in arenaria, mentre quelle in ardesia, solitamente solo graffite, tendono a scomparire in tempi relativamente brevi. Già nella preistoria, l’uomo ha sentito la necessità di dedicare al gioco un pò del tempo, che il lento progresso tecnico gli lasciava libero dalle occupazioni di vitale importanza, quali il procurarsi nutrimento ed evitare di essere mangiato dalle fiere.

Gli schemi di gioco, in origine semplici, hanno poi evoluto verso forme via via più complesse.

Il più semplice dei giochi della tradizione popolare è la tria, formata da un quadrato diviso in otto spicchi da due mediane e due diagonali.

La Tria

Si gioca in due ed ognuno dei giocatori ha a disposizione tre pedine dello stesso colore. Lo scopo del gioco, consiste nel porre le proprie pedine lungo una medesima fila, sia essa orizzontale, diagonale o verticale. Un poco come il gioco del “tris”, ovvero quello che disegnano i bambini sul quaderno di scuola o per terra, con le croci e i cerchi. La differenza, rispetto al “tris”, sta nel fatto che in quello le pedine sono statiche, cioè una volta disegnate non possono essere mosse, mentre nella tria si devono muovere le pedine poste dopo i primi tre turni. Inoltre, nel “tris” si pongono un totale massimo di nove segni, mentre la tria prevede, appunto solo tre pedine per parte, cioè in totale sei. Nella tria, le mosse sono possibili in ogni direzione e non è prevista, generalmente, la possibilità di “mangiare” pedine all’avversario.
La tria, è un gioco molto antico. Presso i Romani, veniva chiamata “il gioco delle nove fossette” ed è citata da Ovidio.

Dalla tria, inserendo altri due quadrati concentrici all’interno del primo, si ricava lo schema del filetto con le diagonali, generalmente senza mediane e diagonali nel quadrato più interno.

Filetto con le diagonali

Questa variante del filetto, attualmente, si gioca soprattutto negli Stati Uniti ed è oggetto di tornei internazionali fra questi ed il Canada. Da noi ebbe ampio sviluppo nei secoli dodicesimo e tredicesimo, poi venne soppiantata dal filetto semplice, senza diagonali di sorta, che possiamo ritrovare sul retro delle scacchiere in legno. E’, comunque, sopravissuto nella cultura popolare, fino agli anni cinquanta del ventesimo secolo, ed è per questo che se ne possono trovare ancora degli esemplari in buono stato di conservazione.
Nel filetto senza diagonali, le pedine a disposizione di ciascun giocatore sono nove, mentre in quello con le diagonali sono dodici.

Filetto senza diagonali

Nel primo, gli allineamenti permessi sono solo orizzontali e verticali, nel secondo anche diagonali ed ogni volta che un giocatore realizza un allineamento di tre pedine, ne “mangia” una all’avversario. Il gioco termina quando uno dei due giocatori rimane con sole due pedine oppure viene impossibilitato a muoversi dalle pedine nemiche.

Anche il filetto semplice era conosciuto nell’antica Roma e menzionato da Marziale, ma la sua origine è probabilmente più antica, forse in Egitto, intorno al 1400 a.C. Esemplari di tavole per il gioco del filetto sono stati ritrovati in tutta l’Europa: nelle rovine della città di Troia, siti sepolcrali dell’Età del Bronzo, inciso sulle tavole delle navi vichinghe, nell’Acropoli di Atene.

E veniamo all’alquerque e alla sua straordinaria storia. Un alquerque è composto da quattro trie, disposte a quadrato, sul quale si dispongono dodici pedine per parte.

Alquerque

Lo schema iniziale prevede che le ventiquattro pedine occupino tutti gli incroci, che sono venticinque, tranne quello centrale. A partire dal basso a sinistra, le righe sono occupate secondo il seguente schema: prima riga, cinque bianche, seconda riga, cinque bianche, terza riga, due bianche, vuoto, due nere, quarta riga, cinque nere, quinta riga cinque nere. Lo spazio vuoto, quindi, potrà essere occupato da colui che muove per primo in una delle quattro mosse possibili. La mossa iniziale, a parità di bravura dei giocatori, determina il successivo svolgimento del gioco, quindi si tira a sorte chi giocherà per primo. Si gioca con regole simili a quelle della dama, ma le differenze fondamentali risiedono nel fatto che tutte le pedine si muovono non solo in diagonale, ma anche in avanti e di fianco. Inoltre, quando una pedina raggiunge la penultima riga, non avanza più finchè non può mangiare. Il gioco termina, quando uno dei due giocatori rimane senza pedine o se le trova tutte immobilizzate.

La storia dell’alquerque, comincia lontano nel tempo. Il più antico tavoliere definibile di questa specie, trovato in alcune tombe della necropoli di Giza, in Egitto, sembrerebbe risalire al 2300 a.C. Sempre in Egitto, ne troviamo un esemplare, in tutto e per tutto simile a quelli odierni, nel tempio funerario del faraone Seti I, presso il villaggio di Gurna, nella zona di Tebe Ovest, risalente al XIV° Secolo a.C. Gli arabi sono venuti a contatto con l’esistenza di questo tavoliere nel settimo secolo dopo Cristo, a seguito della loro conquista dell’Egitto, allora in mano bizantina. Furono gli Arabi, durante la loro espansione nell’area mediterranea, a portarlo in Europa, nell’ottavo Secolo. Fu, precisamente, in terra di Spagna che il tavoliere acquistò tanta fama che là, ancora oggi, il termine alquerque serve per designare quasi tutta la categoria di giochi da tavoliere.

Ma, perché il nome di alquerque? Esso non è altro che la storpiatura iberica del termine al-quirkat, cioè “il quadrato” in lingua araba. Dunque, “il quadrato” per eccellenza, questo ne dimostra la fama e la fortuna nei secoli. Durante le guerre per la “Reconquista” della Penisola Iberica, furono i Catalani i primi a venire in contatto con questa realtà ludica del mondo arabo. Una preziosa testimonianza grafica, a questo proposito, ci viene dal Codice dei Giochi di Alfonso X il Saggio, uno dei re iberici, che aveva acquisito un sapere enciclopedico, per i suoi tempi. Uno dei tanti disegni che illustrano quest’opera, terminata nel 1283, ci mostra due cavalieri, uno cristiano ed uno musulmano, che giocano sopra un tavoliere, sotto una tenda da campo, durante una tregua notturna.

Nel 1302, un ex sergente Templare, Ruggero da Flor, già comandante della nave ammiraglia “Falcone del Tempio”, riunì in Sicilia la prima Compagnia di Ventura europea. Costituita da combattenti, provenienti dall’Aragona e dall’Andalusia, detti Almogavari, venne chiamata Compagnia Catalana. Per il loro primo ingaggio, i Bizantini si avvalsero della loro “professionalità” contro i Turchi ed il Da Flor venne nominato “Megadux”, ossia comandante generale di tutte le truppe dell’Impero. Egli, celebre per aver tenuto testa perfino al potente ammiraglio angioino Ruggero di Lauria, potè sposare una nipote dell’Imperatore e divenire Cesare, la seconda carica dell’Impero. Perduto il proprio fondatore, assassinato nel 1305 in una congiura di palazzo, gli Almogavari conquistarono e tennero per loro il Ducato di Atene fino al 1388, quando vennero cacciati dai mercenari di Navarra, al soldo del fiorentino Neri Acciaiuoli. In seguito, vennero assoldati, in piccole unità combattenti, anche dalla Repubblica di Genova e, della loro presenza su questo territorio, nel ‘400, fa fede anche l’alquerque ritrovato fra i resti di una fortezza sopra Rapallo. Ma quella che ci interessa più da vicino, è una lapide, conservata nella Cattedrale di Sarzana. Essa, ricorda la sepoltura di un giovane mercenario catalano, caduto nel 1487 nella Guerra di Sarzana.

Egli, militava al servizio del Banco di San Giorgio, quindi a favore della Repubblica di Genova contro quella di Firenze. Fu uno degli ultimi eredi di quelle milizie mercenarie e, certamente, non possiamo escludere la presenza, durante quei secoli, di alcuni suoi Compagni e quindi dell’alquerque nelle terre di Lunigiana. Tra l’altro, circa un secolo più tardi, furono proprio dei “Mori Catalan” a causare la distruzione del borgo di Barbazzano, sopra Fiascherino di Lerici. Ancora più complesso e particolare, il gioco del lupo e delle pecore, nato nelle nebbie del nord Europa quando l’Impero Romano d’Occidente stava per cadere. Documentato in una Saga Islandese intorno al 1300, venne probabilmente introdotto in Italia dai mercenari scozzesi in fuga dopo la battaglia di Pavia del 1525.

Una variante di questo gioco, trova molta diffusione nell’Appennino Settentrionale. Il gioco del lupo e delle pecore, si presenta come un alquerque, al quale è stata aggiunta una tria, affiancandola al centro di uno dei lati. Per convenzione, si fa riferimento al lato superiore del quadrato.

il gioco del lupo e delle pecore

Le regole di questo gioco, nel territorio apuano, prevedono lo schieramento di dodici pecore contro un lupo. Le pecore possono muoversi solo in avanti e di fianco, non in diagonale, il lupo può muoversi in ogni direzione e mangia le pecore come nella dama. Lo schema iniziale, vede le pecore schierate ad occupare le prime due righe e la prima ed ultima posizione della terza, il lupo occupa la posizione centrale della quinta. Il gioco termina quando le pecore riescono occupare per intero la quinta tria, detta “ovile”, oppure se il lupo mangia almeno quattro pecore, poichè per occupare una tria occorrono almeno nove pecore.


Sono Consigliere Esperto di Italia Nostra, sezione Apuo-Lunense, dal 1990. Attualmente (ottobre 2020), ricopro anche l’incarico di Coordinatore. Dal 1990 al 1998, ho svolto ricerche sui portali in arenaria dei borghi della Lunigiana Storica, studiandone forme, iscrizioni e simboli.

Durante questa attività, nel mese di maggio 1998, mentre mi trovavo nel paese di Ornetto, sopra Sesta Godano, ho fatto un’incontro che ha determinato in me un nuovo interesse. Sopra un portale di questo borgo, ho visto il reimpiego di una pietra recante un’incisione che raffigurava un filetto. Sono rimasto colpito dalla bellezza di questo schema, non solo geometricamente perfetto, ma anche adorno di particolari esteticamente rilevanti. La mia memoria, è andata a qualche tempo prima di allora, quando mi ero trovato nel paese di Collegnago, sopra Fivizzano, dove avevo notato di sfuggita qualcosa di simile. Il caso, ha voluto che poco tempo dopo mi sia capitato fra le mani un libro che trattava l’argomento dei tavolieri incisi nella pietra, relativamente alle regioni Piemonte e Liguria.

Tornato a Collegnago, ho aperto un nuovo filone di ricerca su questo tipo di testimonianza culturale, favorito tra l’altro dalla mia collaborazione ad una Tesi sull’argomento presso l’Accademia di Belle Arti di Carrara, che ha visto la luce nel 2005. Si tratta di un vero e proprio “Corpus” simile, fatte le debite differenze qualitative, a quello delle Statue Stele della Lunigiana Storica e di quel territorioricalca l’estensione. In quegli anni, ho preso contatto con l’autore di quel libro sui tavolieri piemontesi e liguri ed ho creato una rete di contatti con altri scopritori di tavolieri inediti, in tutte le parti d’Italia ed oltre. Uno di questi, incontrato nel borgo di Filetto, nel Comune di Villafranca Lunigiana, mi ha detto di avere notato uno di questi tavolieri inciso in un’aia della frazione di Castangiola, presso Pontremoli.

Mi sono allora ricordato che, durante la collaborazione ad una Tesina sull’argomento, redatta tre anni prima della Tesi summenzionata, ero venuto a conoscenza di alcuni antichi documenti notarili. Da questi, si poteva evincere la presenza, fin dal ‘500, di due principali poli estrattivi lunigianesi dell’arenaria, ubicati rispettivamente nei dintorni di Fivizzano e di Pontremoli. Poiché, la presenza dei tavolieri incisi in questo tipo di lapideo, è spesso collegata a quella di un’attività estrattiva nei dintorni, i conti tornavano. Tanto più che, in precedenza, avevo scoperto un tavoliere inciso nel cortile interno al castello del Piagnaro di Pontremoli (anni più tardi, ne ho trovato i lacerti di un’altro).

Quindi, con l’aiuto della relatrice di quelle due Tesi, Maria Grazia Picedi, mi misi alla “caccia” di quanto quel territorio avrebbe potuto donare alla mia ricerca per arricchirne i frutti. Fu così che, sulla via per Castangiola, ci fermammo presso il Convento dei Cappuccini e chiedemmo il permesso di esplorarne il chiostro. Bisogna sapere che i chiostri dei conventi, furono spesso testimoni di un’attività ludica, basata proprio sui tavolieri incisi sui parapetti, al punto che un papa si vide costretto a proibirli. Non avendo riscontrato nulla di interessante, ci avventurammo nel grande giardino del Convento e dopo poco scoprimmo un tavolino con ben tre tavolieri incisi. Rilevati i dati per la compilazione delle schede tecniche, ci portammo a Castangiola e facemmo altrettanto. Poi, proseguendo per la strada verso i monti, ci fermammo ad Arzengio, dove trovammo ancora un tavoliere.

Alcuni anni più tardi, durante un’esplorazione ancor più accurata, ne sarebbe venuto fuori un’altro ancora. Poco tempo dopo, tornati a Pontremoli, tentammo la fortuna nei paesi della Valle del torrente Verde, ma riuscimmo a trovarne uno solo. Tuttavia, questo stava inciso casualmente nel gradino di una scaletta, situata davanti alla casa di Vignola dell’allora Sindaco di Pontremoli, Gussoni. Una chiacchierata con la sua consorte, sembrò aprirci la possibilità di anticipare il lavoro che state leggendo, con la prospettiva di una conferenza da tenersi presso il Municipio.

Purtroppo, problemi di natura politica, sorti poco dopo questo incontro, impedirono al Sindaco di aiutarci a portare a buon fine questa idea. Successivamente, rivolgemmo le nostre attenzioni al territorio della Valle del torrente Caprio e lì, nel borgo di Ponticello, trovammo tre tavolieri sopra un muretto nei pressi della chiesa. Ancora, durante una passeggiata sul più antico ponte di Bagnone, scoprimmo un’altro tavoliere ed infine un’ultimo, per ora, è venuto alla luce nel borgo di Licciana Nardi. Da allora, ho tenuto parecchie conferenze e scritto articoli sull’argomento, ma non riguardo ai tavolieri del pontremolese.

Nell’ottobre 2008, ho collaborato ad una Mostra di Maria Grazia sui tavolieri, basata su tre filoni, storico, didattico ed artistico. Infine, ho elaborato una mia visione artistica dei tavolieri e l’ho presentata in alcune mostre personali. Ora, ho deciso di rendere pubblico il risultato di quelle ricerche in Val di Magra e spero di poter fare altrettanto in futuro riguardo ad altre aree della Lunigiana Storica.


Sergio Marchi

Post Scriptum:
In questa presentazione, a differenza da quanto illustrato nelle nostre precedenti comunicazioni, il materiale fotografico verrà illustrato sommariamente. Per motivi tecnici, non abbiamo sempre potuto prendere le misure dei tavolieri e relativi supporti, come invece sarebbe stato necessario per compilare le successive schede sul modello di quelle dei beni culturali.

Tavolieri di Pontremoli.

Tavolieri del castello del Piagnaro.
Piagnaro I: trattasi della metà di un alquerque, misure 38 x 19, lastra di supporto 48 x 40.
Si trova nel piazzale interno del castello, presso la scalinata che conduce al Museo delle Statue Stele.

Dalla foto del tavoliere, si può notare che solo la tria inferiore si è mantenuta in uno stato di conservazione accettabile, mentre quella superiore sembra aver risentito maggiormente del passar del tempo, anzi pare proprio che sia stata anche incisa in maniera più approssimativa. Forse, la pietra di supporto originale venne spezzata e reimpiegata in questa pavimentazione prima che l’autore avesse terminato la sua opera. Presumo questo, poiché ho avuto testimonianza da alcuni degli ultimi sopravissuti al lavoro nei poli estrattivi lapidei che questo poteva accadere specialmente ai più giovani nelle cave. Essi, quand’anche non fossero scalpellini di mestiere, amavano cimentarsi in queste semplici realizzazioni, sebbene non sempre avessero poi il tempo per poterci giocare effettivamente.

Il tavoliere Piagnaro II, si trova nello stesso piazzale del primo, a mezzo metro da esso. E’ decisamente ridotto in condizioni assai peggiori, motivo questo della nostra scoperta più tarda. Questa potè avvenire anche grazie al fatto che, in quell’occasione setacciammo con estrema accuratezza il piazzale stesso, scattando numerose fotografie a molte lastre. La pietra di supporto, all’incirca quadrata, presenta le tracce di quello che forse fu un alquerque. Lo si può intuire dai numerosi resti delle diagonali delle trie che lo componevano. La fotografia, non le evidenza più di tanto, ma quando fu scattata non eravamo provvisti di acqua per bagnare la pietra di supporto e non abbiamo voluto scomodare gli addetti alla biglietteria. Ci siamo ripromessi di rimediare in futuro e se ne ricaveremo di più ve ne daremo contezza.

Tavolieri del Convento dei Cappuccini.

Come già scritto, si trovano tutti sopra un tavolino di marmo, situato nel giardino del Convento.

Cappuccini I, è il primo della foto, a partire da sinistra, e viene dettagliato nella foto che segue a quella del tavolino.

Lo stesso dicasi per gli altri tavolieri, Cappuccini II e Cappuccini III.

Cappuccini I, è un bellissimo schema di scacchiera, con i quadrati bianchi in rilievo rispetto a quelli neri. Personalmente, sapevo dell’esistenza di questo genere così particolare di scacchiera, ma questa è stata la prima volta che ne ho potuto osservare una dal vero. La sua presenza, solitamente associata a luoghi religiosi o esoterici, evidenzia l’eterna lotta fra il bene e il male, fra il bianco e il nero, fra l’alto e il basso. La costrizione alla convivenza di questi opposti, in un unico abbraccio di pietra, mi induce a riflettere sopra uno dei sette principi primari della dottrina ermetica, quello della Polarità.

Per chi ne fosse digiuno, lo riassumo in questi termini: “Tutto è duale, tutto ha poli, ogni cosa la sua coppia di opposti, di natura identica, seppur differenti in grado”. Da questo, deriva che “il simile e il diverso sono uguali, gli estremi si toccano, tutte le verità non sono che mezze verità e tutti i paradossi possono essere conciliati”. So bene che sono concetti difficili da digerire, ma posso dire che, per esempio, essi sono stati alla base della scienza moderna, dall’alchimia alla matematica che spiega la fisica delle “particelle elementari”, i mattoni dell’universo.

Sotto a questo primo schema di tavoliere, sta scolpita un’iscrizione, “ A CARLO DA BAGNONE “.

E’ con molta probabilità una dedica, ma non si capisce bene se riguardi il primo schema, quello di seguito o tutti e tre quelli che sono incisi sul tavolino. Sembrerebbe, inoltre, che le iniziali dell’autore degli schemi siano F e P, come riportate sia sul lato sinistro del tavolino che in corrispondenza della lettera A con cui inizia la dedica.

La foto successiva, quella relativa a Cappuccini II, ci toglie parte delle castagne dal fuoco.

Infatti, dal lato opposto a quello della dedica, un’altra iscrizione, “P.D. 1924”, evidenzia che P.D., ha inciso Cappuccini II e l’ha dedicata a Carlo da Bagnone, come ci certifica la perfetta somiglianza delle due D, quella della dedica e quella dell’iniziale. A questo punto, osservando meglio le linee che compongono i tre schemi, direi che sono stati incisi tutti da P.D. In mancanza di una parte della destra del tavolino, rotta in più punti, con danno di Cappuccini III, non possiamo più dire quale ruolo abbia svolto F.P. Forse, ha solo voluto lasciare un ricordo del suo soggiorno presso il Convento.

Comunque, Cappuccini II è un bellissimo schema di gioco del lupo e delle pecore, presenta solo piccole macchie di probabile origine vegetale, poiché si trova sotto una copertura di piante, come evidenziato dalla foto. Anche Cappuccini III, come Cappuccini I, è un bellissimo schema di scacchiera, purtroppo menomato da quelle fratture del tavolino già descritte, ancor più evidenziate dalla fotografia successiva.

SEGUE