(da Ameglia Informa di marzo 2016 e segg. e altri articoli del 2004)

La missione Ginny II (nella foto sopra una parte dei 15 componenti del commando) si concluse tragicamente sulle scogliere della Punta Bianca nei pressi della Batteria De Luti, la mattina del 26 marzo 1944. Al fine di commemorare il 60º anniversario della missione, l’American OSS Society e il Comune di Ameglia nel 2004 hanno deposto una targa commemorativa.

L’OSS era stato costituito con un decreto militare del presidente Roosevelt durante la seconda guerra mondiale nel giugno del 1942, per raccogliere e analizzare le informazioni strategiche necessarie allo svolgimento di operazioni particolari non affidate ad altri organismi. Venne poi sciolto con decreto presidenziale nel 1945 per essere poi ricostituito nella CIA.

Ma che cosa era stata e come si era svolta la Missione Ginny I e Ginny II?

La prima missione, Ginny I, fu tentata nella notte tra il 27 ed il 28 febbraio 1944, quando 15 commando sbarcarono sulla terraferma ad ovest del piccolo comune di Framura. Non riuscendo ad individuare il tunnel obiettivo del sabotaggio, i commando si resero conto di essere sbarcati nel punto sbagliato, e quindi venne deciso di annullare la missione. Nel buio, il commando OSS (Office of Strategic Services) americano, proveniente da Bastia, su due gommoni, prende terra vicino a quello che ancora oggi è conosciuto come lo scoglio di “Panèa e Punta Marmi”, cioè la punta che si trova alla destra di Montaretto, per sabotare, come si è detto, il tunnel ferroviario tra Bonassola e Framura; una linea a binario unico, utilizzata per rifornire le truppe tedesche impegnate al fronte di Cassino.

Sui gommoni si trovavano militari americani di seconda generazione, che parlavano correttamente l’inglese e la lingua del paese europeo in cui avrebbero dovuto operare. In questo caso, tutti di origine italiana; personale altamente addestrato per infiltrarsi e confondersi con le popolazioni locali.

A motivo di ritardi, dovuti alle condizioni atmosferiche, di problemi tecnici nella localizzazione dell’obiettivo e della numerosa presenza di truppe tedesche e fasciste, l’operazione venne annullata dal comandante dei mezzi di recupero. Il rientro venne stabilito per evitare, con il sorgere del sole, di essere individuati dai mezzi navali tedeschi, che durante il giorno pattugliavano la zona di mare antistante il litorale.

La missione Ginny II fu intrapresa il mese successivo, per tentare di portare a compimento gli intendimenti del piano originale.

Un obbiettivo troppo importante quello di Framura, ragione per cui un secondo tentativo venne effettuato il 22 marzo, alle ore 18.00, quando due motosiluranti della U.S. Navy, la PT210 e la PT214 presero a bordo la squadra del 2677 Special Reconnaissance Battalion e, dopo essere salpate da Bastia, fecero rotta verso la costa ligure. Il tenente Russo comandava il team di demolizione e il tenente Paul J. Traficante il team di protezione; quindici uomini in tutto, bene armati che sulle divise non portavano alcun distintivo di appartenenza, tranne le insegne relative ai gradi rivestiti nell’U.S. Army applicate sulle maniche e sul colletto delle camicie.

Qualora la squadra si fosse resa conto, per qualsiasi motivo, di non poter ultimare la missione entro il tempo prestabilito, sarebbe dovuta ritornare subito alla spiaggia, dove erano in attesa nell’oscurità,
le due motosiluranti che avrebbero provveduto al loro recupero e al rientro alla base.

Se ciò non fosse stato possibile, i commando avrebbero dovuto raggiungere una casa prestabilita, rimanere nascosti sino alla notte successiva, e così di seguito nel caso di altro insuccesso; era previsto, inoltre, un piano d’emergenza che prevedeva l’unione dei commando a Bobbio con una brigata partigiana. (segue)


Gino Cabano

(da Ameglia Informa di aprile 2016)

Le due squadre della missione Ginny, presero terra per la seconda volta in Liguria, in una piccola caletta, detta lo Scà. Una volta sbarcati, il tenente Russo si rese conto che le cose non stavano andando come avrebbero dovuto. Il punto di arrivo era di nuovo sbagliato e il gruppo era finito a circa 3 km dal luogo previsto. Un pessimo inizio per una missione così importante che già aveva creato perplessità agli stessi commando quando avevano dovuto imbarcarsi sui tre gommoni gialloneri del tipo che veniva generalmente utilizzato nelle operazioni di soccorso, ben visibili in mare anche durante la notte. I fatti che successero dopo ne furono la dimostrazione, ma questo, al momento, nessuno del commando poteva saperlo. Serviva una ricognizione così nascosero i tre gommoni e i 30 chili d’esplosivo e tutti i militari si incamminarono su per la costa scoscesa e selvaggia finché, raggiunta la zona coltivata, trovarono una stalla abbandonata dove decisero di passare la notte.

Nella mattinata successiva, il 23 marzo, il tenente Russo e il sergente Mauro uscirono in perlustrazione e contattarono un giovane contadino che accettava di procurar loro del cibo e di accompagnarli, durante la giornata, sul luogo prescelto come obiettivo; all’apparenza tutto procede senza intoppi. Secondo il piano prestabilito, nella serata dello stesso giorno 23 marzo, due PT-boat vennero inviate da Bastia per procedere nell’operazione e provvedere al recupero dei commando, dopo il sabotaggio al tunnel ferroviario.

Ancora una volta le cose non andarono come avrebbero dovuto: una delle due siluranti, per una serie di guasti a bordo, fu costretta al rientro mentre l’altra, che aveva proseguito nell’operazione, si trovava costretta a manovre diversive e al rientro, per la presenza di numerosi mezzi nemici lungo il litorale. Gli uomini, avrebbero dovuto passare un’altra notte nascosti nella stalla per attendere il giorno successivo. Alle prime luci dell’alba, il caso volle che un pescatore si accorgesse dei gommoni nascosti tra gli anfratti dello Scà e ne riferisse alla sede locale del fascio che, verificata l’autenticità della notizia, avvisò il comando tedesco; così venne organizzato un gruppo composto da militi fascisti e soldati tedeschi, che rastrellarono la zona alla ricerca dei sabotatori. Una giovane contadina che aveva notato gli americani, contribuì a farli individuare. Anche il giovane Lussago che aveva già aiutato il commando nella giornata precedente si accorse di quanto stava succedendo e cercò di avvisare gli americani ma, due di loro che probabilmente avevano il compito di sorvegliare la zona, erano già stati catturati nella campagna. Per trovare gli altri, un milite fascista usò come richiamo il suono di uno dei fischietti da segnalazione in dotazione ai gommoni rinvenuti sulla costa. Riconosciuto il fischio, i commando uscirono allo scoperto e, accortisi dell’inganno, ingaggiarono con gli italotedeschi una sparatoria infernale con lanci di bombe e raffiche di armi automatiche, finché gli americani, convinti della superiorità numerica degli assalitori e credendosi accerchiati, decisero di arrendersi. (segue)


Gino Cabano

(da Ameglia Informa di maggio 2016)

Un brutto mezzogiorno, per gli uomini della missione Ginny, catturati da una manciata di miliziani e tedeschi per delle fatalità ma soprattutto errori che ancora oggi rimangono inspiegabili.

Dalla ricostruzione dei fatti, portata a termine dal cap. Negrelli e dal ten. Scariano dopo il 25 aprile del 1945 quando La Spezia era stata ormai liberata, i quindici militari furono condotti a Bonassola e rinchiusi nella sede del fascio dove vennero interrogati da un funzionario locale del partito, tale Vittorio Bertoni, coadiuvato da un certo Giobatta Bianchi.

La tragedia stava per iniziare. Gli uomini vennero condotti presso il comando della 135ª brigata alle dipendenze del colonnello Almers, che pare si trovasse nel paese di Carrozzo. Lì, separati in tre gruppi, subirono quello che può definirsi un vero e proprio interrogatorio, a cui parteciparono almeno tre alti ufficiali tedeschi W. Koerbitz, F. Klaps e G. Sessler, sulle modalità del quale si hanno notizie confuse e contrastanti anche perché i documenti vennero distrutti per ordine del gen. Anton Dostler, comandante in capo del 75° corpo d’armata tedesco con sede alla Spezia. Nella mattinata del 25 marzo, da Dostler in persona, arriva l’ordine di fucilare immediatamente i quindici militari americani; ordine che richiama le disposizioni emanate da Hitler il 18 ottobre 1942 in merito alla cattura di commando nemici, sorpresi dietro le linee durante operazioni di sabotaggio. L’ordine dell’Alto Comando, creò non poche perplessità e turbamento fra gli stessi ufficiali tedeschi del comando spezzino, e in particolare nel comandante della 135ª brigata il quale, a più riprese, fece presente al suo diretto superiore che i prigionieri erano militari che indossavano uniformi delle forze armate americane e che quindi la loro esecuzione avrebbe violato le convenzioni internazionali sui prigionieri di guerra. Dostler non volle sentire ragione. Nella notte fra sabato 25 e domenica 26 marzo, ufficiali della 135ª brigata e del servizio navale che avevano partecipato all’interrogatorio, tentarono ancora, con una concitata serie di telefonate, di convincere Dostler a modificare la sua decisione ma tutto fu inutile; uno stretto collaboratore del generale Dostler, Alexander Von Dohna Schlobitten, rifiutò di firmare l’ordine di esecuzione subendo in seguito un provvedimento di insubordinazione.

All’alba della domenica i 15 militari americani furono condotti nelle vicinanze della batteria De Luti, lontano dal luogo della cattura e senza pubblicità per gli stessi soldati tedeschi che occupavano la provincia, brutalmente massacrati e poi sepolti in una fossa alla Ferrara.

Contrariamente a quanto è stato detto sino a oggi, tredici militari americani vennero trucidati a martellate o con la cassa del fucile e due probabilmente colpiti a distanza ravvicinata con la pistola.

Questo è il sunto di quanto risulta dall’autopsia depositata il 27 maggio 1945 eseguita dal maggiore Pedro M. Souza, medico di fiducia della Compagnia A del 2671 Battaglione OSS e dalla relazione forense stesa dai medici Bassett e Willoughby. Notizie che ho appreso da Joseph Squatrito, cugino di uno dei militari e autore di “Code Name Ginny” e dal verbale di testimonianza di don Nilo Greco, un parroco di Ameglia.

A fine guerra Dostler venne catturato e dichiarato colpevole di crimini di guerra in violazione dell’art. 2 della Convenzione di Ginevra del 1929 con la sentenza che stabiliva che “non è accettabile che un soldato, e ancora meno un generale investito di incarichi di comando, possa considerare l’esecuzione sommaria di prigionieri di guerra un legittimo atto di rappresaglia”; per questa ragione venne condannato a morte per fucilazione eseguita il 1º dicembre 1945 ad Aversa.

In Ameglia, nella piazza della Libertà, esiste una lapide in memoria dei 15 soldati americani, posata il 25 aprile del 1990 in occasione del 45º anniversario della Liberazione.

Inoltre è stato eretto un monumento lungo la via della Pace, nei pressi del luogo dove avvenne l’esecuzione e nel 2004, al fine di commemorare il 60º anniversario della missione, l’American OSS Society e il Comune di Ameglia hanno deposto una placca commemorativa alla Punta Bianca. fine)


Gino Cabano

Della storia se ne occupò Ameglia Informa anche nel 2004 con il seguente racconto di Pierangelo Caiti

(da Ameglia Informa di giugno, luglio, agosto, settembre e ottobre 2004)

1 –

Il 24 aprile 2004, per ricordare il 60° anniversario della fucilazione a Punta Bianca di 15 soldati americani da parte dei nazisti, si è tenuta in piazza Libertà ad Ameglia una solenne cerimonia con l’intervento di autorità civili e militari e dell’addetto militare USA col. Rosner. Successivamente gli intervenuti hanno ricollocato una targa commemorativa nel luogo della fucilazione a Punta Bianca ed alla Ferrara dove i militari furono in un primo tempo sepolti.

Per gentile concessione dell’autore Pierangelo Caiti, autore del libro “Missioni SOE e OSS: gli Alleati e la Resistenza in Liguria, Emilia e Toscana 1943-1945”, pubblichiamo di seguito, a puntate, la ricostruzione storica di quel triste avvenimento affinché sia di imperituro ricordo per i cittadini di Ameglia.

Per bloccare i rifornimenti alle truppe tedesche sul fronte di Cassino ed a quelle impegnate a contrattaccare vivacemente le forze americane sbarcate ad Anzio e Nettuno il 22 gennaio 1944 ma inchiodate nella testa di ponte, dopo la distruzione per bombardamento aereo dei nodi ferroviari di Bologna e Firenze, era necessario interrompere anche il flusso da Milano e da Torino della linea ferroviaria costiera tirrenica che scendeva lungo la Liguria. Si trattava della Torino-Roma che, interrotta in più punti dai cacciabombardieri alleati, veniva tuttavia ripristinata in brevissimo tempo dall’efficientissimo servizio del genio ferroviario tedesco. Questa linea, che oggi come allora nella tratta Sestri Levante-La Spezia passa quasi esclusivamente in galleria, avrebbe potuto essere interrotta per un periodo di tempo ben maggiore se fosse stato possibile far crollare una galleria. Tentativi erano stati fatti con l’aviazione ma si erano tutti dimostrati inutili. L’unica maniera per cogliere un successo definitivo poteva essere quella dell’invio di un gruppo di sabotatori che, trasportati via mare in un tratto accessibile della costa, effettuassero l’attacco e si reimbarcassero. Inoltre, come precisarono successivamente gli ideatori della missione, con l’azione dei guastatori si evitavano ulteriori bombardamenti aerei che avrebbero cagionato gravi perdite anche alla popolazione civile come era già avvenuto in precedenza in altre occasioni. I Tedeschi, consapevoli dell’importanza della linea ferroviaria e che le gallerie potevano costituire l’obiettivo privilegiato di un attacco via mare, avevano costruito presso quasi tutti gli imbocchi delle gallerie più importanti, delle casamatte in cemento armato dotate di feritoie per le mitragliatrici
che vigilavano i punti, per la verità pochi, che lungo quel tratto di costa si potevano prestare ad uno sbarco anfibio. La ricognizione aerea americana aveva rilevato tutto ciò e pertanto, come obiettivo, era stata scelta una zona particolarmente disagevole, una costa alta e rocciosa, ricca di vegetazione mediterranea, con stipa e pini marittimi, frammista a vigneti ed uliveti, ubicata tra l’abitato di Bonassola e la stazione ferroviaria di Framura, due comuni della provincia della Spezia, dove le tre gallerie presenti erano accessibili per brevissimi tratti corrispondenti ai punti di interruzione delle volte che, per l’effetto della presenza di numerose vallette, in alcuni punti facevano passare i binari allo scoperto o in tratti coperti da volte artificiali per proteggerli dall’erosione marina.

2 –

In quel tratto di costa, lungo circa 3.000 metri, la ferrovia passava a picco sul mare all’interno di tre gallerie che seguivano il profilo della costa (oggi nella zona di Bonassola la ferrovia passa più a monte dando vita all’unica galleria Monte Brino lunga 2.528 metri) e, salendo dalla Spezia a Genova erano nell’ordine: la Galleria Bonassola, la Galleria Vandarecca e la Galleria Framura. Dopo la prima galleria, lunga 991,82 metri, un breve tratto di binario restava allo scoperto, in quanto la costa si apriva in una stretta valletta, inoltre alcuni grandi finestroni nella stessa zona si affacciavano sul mare, lo stesso avveniva al termine delle altre gallerie. In quei punti i sabotatori alleati avrebbero potuto raggiun
gere la linea ferroviaria e minare le volte reimbarcandosi senza essere avvistati. Il presidio tedesco più vicino si trovava a Bonassola a circa 2.500 metri dalla zona prevista per il sabotaggio dal comandante dell’OSS in Corsica Ten. Albert Materazzi. (OSS = Office of Strategic Service, Ufficio dei Servizi Strategici, le special forces americane dalle quali nel 1947 sarebbe nata la CIA). Presso la stazione di Framura-Anzo, che distava meno di mille metri dalla zona del sabotaggio, esisteva una postazione di mitragliatrici con un piccolo bunker a cupola mentre una postazione di artiglieria con 4 pezzi era stata individuata sul promontorio Punta di Monte Grosso. L’obiettivo dell’attacco era stato individuato dagli Americani, dopo l’analisi delle fotografie aeree, a circa 1.500 yarde (1.371 metri) a sud della stazione ferroviaria di Framura, poco dopo lo scoglio Ciamìa. Dopo la conquista alleata della Corsica e l’abbandono di Bastia da parte dei Tedeschi, avvenuto il 4 Ottobre 1943 sotto la spinta dei reparti della Divisione fanteria italiana “Friuli” appoggiati da quattro
battaglioni di truppe coloniali francesi, l’isola, che distava solo una cinquantina di miglia dalla costa italiana, era diventata una base operativa dell’OSS e dell’SF 1 (Special Force One) del SOE (Special Operations Executive, Centro Operazioni Speciali, il similare servizio britannico) per le infiltrazioni via mare. Una prima ricognizione operativa, denominata missione GINNY I, veniva effettuata con una PT (Pursuit Torpedo) nella notte tra il 27 e il 28 febbraio, il giorno prima del contrattacco tedesco alla testa di ponte di Anzio previsto per il 1° marzo e che infatti scatterà regolarmente sulle 5 divisioni alleate, costrette in un perimetro largo 24 km e profondo al massimo 13 km. Il mare brutto non impediva lo svolgimento della missione di ricognizione e l’attenzione si incentrava sulla zona a sud dello scoglio Ciamìa, fuori vista delle postazioni attorno alla stazione ferroviaria di Framura. Per l’azione vera e propria si attendeva la successiva luna piena, mentre perdurava l’impasse alleato sulle spiagge laziali che sarebbe stato sbloccato solo il 23 maggio.

Il reparto scelto per l’operazione era costituito da italoamericani, solo alcuni dei quali interamente padroni della lingua italiana. Ne facevano parte 15 uomini, tutti con brevetto da paracadutista, appartenenti alla Compagnia A/2671° Btg. da ricognizione del 2677° Rgt. OSS: i tenenti Vincent J. Russo e Paul J. Traficante (comandanti l’uno della squadra di sicurezza e l’altro della squadra guastatori); i sergenti Livio Vieceli, Dominick C. Mauro e Alfred L. De Flumeri; i soldati Salvatore Di Sclafani, Santoro Calcara, Joseph M. Farrell, John S. Leone, Joseph A. Libardi, Joseph Noia, Thomas N. Savino, Angelo Sirico, Rosario F. Squatrito e Liberty G. Tremonte.

Il comando dell’operazione era del Ten. Albert R. Materazzi, che avrebbe accompagnato gli uomini sino in vista della costa ed alla discesa nei gommoni. Imbarcato sulla PT 214 assieme al gruppo del Ten. Russo, mentre il gruppo del Ten. Trafficante era sulla gemella PT 210 comandata dal Ten. US Navy Harold J. Nugent. Assieme a Materazzi si trovava come riserva del gruppo operativo il 23 enne sergente maggiore Caesar Daraio (venuto lo scorso anno ad Ameglia a rendere omaggio ai commilitoni caduti), che avrebbe dovuto prendere parte all’operazione e sbarcare in caso uno dei suoi compagni avesse avuto un infortunio o un malore. Materazzi gli aveva affidato il compito di tener d’occhio con il binocolo le luci di Framura e di dar subito l’allarme se queste si fossero spente; sarebbe stato quello infatti il segnale, secon
do gli Americani, che i Tedeschi delle piccole postazioni antisbarco attorno alla stazione ferroviaria di Framura avevano notato qualcosa di sospetto e si erano messi in allarme. Il fatto avrebbe subito comportato l’annullamento della missione ed il rapido rientro alla base.
3 –

Partiti dal porticciolo di Bastia a bordo delle PT 210 e 214, gli uomini della Missione GIN-NY II, rilasciati in mare all’altezza prevista e ad una distanza di circa mezzo miglio dalla costa dalle due motosiluranti che operavano ad una certa distanza l’una dall’altra, seguiti con il binocolo da Materazzi sino a quando fu possibile, prendevano terra nella notte tra il 22 ed il 23 marzo 1944, illuminata da una luna calante piuttosto vivida, ad almeno un migliaio di metri a sud del punto previsto, un fatto ancora oggi inspiegabile per Materazzi e Nugent. Lo sbarco avveniva, probabilmente per forti correnti costiere, in una piccola insenatura rocciosa in località “Scà” un paio di centinaia di metri dietro Punta di Monte Grosso, la seconda del piccolo promontorio (la prima è Punta della Madonna) che sorge alle spalle di Bonassola in direzione di Genova, sbarcando da tre battelli pneumatici neri che ancoravano alle rocce.

Le motosiluranti che li avevano condotti per circa 92 miglia in quasi sei ore di navigazione, pencolavano al largo, collegate via radio ancora alcuni minuti con gli uomini sui gommoni.

La PT 210 nel frattempo aveva perso l’elica, la PT 214 ne  aveva una di rispetto ma i due natanti, essendo stati costruiti  in cantieri diversi non erano perfettamente identici e si dovette lavorare a lungo di lima per consentire l’adattamento all’asse. Infine venne avvistato  un convoglio tedesco che parve aprire il fuoco sulla motosilurante PT 210 e così, prima l’una e poi l’altra, si videro costrette  ad  allontanarsi ed a mettersi sulla via del ritorno prima che spuntasse l’alba.

La rapida ritirata degli Americani era giustificata dalla presenza sulla PT 214 di un radar modernissimo e segreto che bisognava impedire ad ogni costo, anche con l’autoaffondamento se necessario, che cadesse in mano nemica.

Gli uomini sbarcati avevano un completo armamento individuale, larga dotazione di viveri, di denaro (lire italiane e  franchi francesi) e numerosi zaini di alto esplosivo con il quale minare le volte della galleria ferroviaria.

L’azione operativa prevedeva l’immediata esecuzione del sabotaggio, il reimbarco e l’esfiltrazione nella notte stessa, ma l’errore nella presa di terra ne determinava l’insuccesso.

Non veniva infatti rintracciata la volta esterna della galleria Framura, oggi Monte Brino, che nel punto previsto per  l’azione, circa mille metri a sud della stazione di Framura, era  per un tratto di una cinquantina di metri artificiale, cioè fuoriusciva dal monte e distava solo una decina di metri dal mare. Lo sbarco in quel punto era favorito anche dalla presenza nelle adiacenze di una spiaggetta che doveva facilitare l’attracco dei gommoni.

4 –

Per colmo di sfortuna il punto effettivo di sbarco distava solo un centinaio di metri dall’imbocco sud della galleria Vanderecca, in corrispondenza di una stretta valletta che interrompe il tunnel di Bonassola e che avrebbe rappresentato un’altro ottimo punto di sabotaggio. La zona dello “Scà” era invece in terreno scosceso, servito da un sentiero per capre che in cinque minuti di risalita portava in località Carpeneggio dove sfogano i camini della sottostante galleria e dove allora un vigneto ed una stalla segnalavano la presenza dell’uomo. I quindici militari americani, tutti in divisa dell’U.S. Army con gradi e mostrine e con sul petto il distintivo del brevetto di paracadutista, si rifugiavano in una capanna proprio a Carpeneggio lasciando i battelli pneumatici, mimetizzati per non essere scorti dal mare ma non dall’alto e, con l’equipaggiamento pesante, nel loro ancoraggio di “Scà”. Poste due sentinelle ai margini del vigneto dove iniziava un boschetto di pini, gli italoamericani in parte si riposavano mentre alcuni alle prime luci dell’alba andavano in esplorazione finché avvistavano alcuni civili e ripiegavano nella capanna in attesa del buio. Il Ten. Materazzi effettuava un tentativo di recupero con una imbarcazione britannica che imbarcava anche alcuni uomini del Commando n.30 del Magg. Croft, la notte successiva del 23/24 (Missione GINNY III), ritentando anche il 25/26 (Missione GINNY IV) ma la presenza di numerose luci sulla costa e sul mare impediva l’azione. Le luci in mare erano probabilmente quelle di barche da pesca. Solo successivamente, da documenti tedeschi, Materazzi apprese che le unità tedesche non li avevano avvistati la sera dello sbarco e non avevano aperto il fuoco contro di loro ma solo effettuato una prova delle armi secondo la normale prassi ad ogni nuova uscita in mare. In caso di mancato recupero gli uomini avrebbero dovuto puntare su Bobbio (PC) per prendere contatto con i partigiani della Divisione “Piacenza” di Fausto Cossu di cui avevano notizie. Frattanto gli Americani erano stati visti. Un pescatore aveva notato i battellini all’ancora e ne aveva parlato in paese, lo stesso avrebbe fatto la sera il contadino che curava il vigneto di Carpeneggio e che era sceso a pascolare le pecore lungo il bosco sino a poche decine di metri dall’acqua dove il diradarsi della vegetazione consente di scorgere la costa sino a Framura. Il mattino del 24 la notizia di un possibile sbarco americano giungeva alle orecchie del commissario del Fascio Repubblicano di Bonassola che allertava il piccolo presidio tedesco del paese.

I Tedeschi mandavano verso Carpeneggio sette soldati a cui facevano da guida e supporto un capomanipolo e due militi delle Brigate Nere a cui si aggiungevano due altri fascisti tra cui il Capostazione Vincenzo Bertini, scomparso ultranovantenne una decina di anni fa.

A Carpeneggio Angiolina Figari, che abitava con la famiglia in un casolare con stalla poco distante e stava portando al pascolo le pecore con un’amica, incontrava i soldati americani. Questi le chiedevano di procurare loro del pane fresco e le davano 400 lire. Si erano da poco allontanate le ragazze che piombava nella zona il gruppetto di nazifascisti. Alcuni militi delle Brigate Nere erano scesi a “Scà” da un altro sentiero, avevano individuato i battellini ed ispezionato le sacche ancora a bordo. Poi, verso le 10,30, erano risaliti ed avevano potuto prendere alle spalle le sentinelle americane; poco dopo avveniva la resa del resto del gruppo senza colpo ferire ed il disarmo. Tutti, o solo alcuni di loro, avevano probabilmente il giubbetto rovesciato per nascondere le mostrine ed i gradi, in modo che chi li vedesse potesse prenderli per civili. I 15 militari americani venivano condotti a Bonassola lungo la mulattiera che da Carpeneggio, in venti minuti di cammino, scende all’abitato in prossimità del Comune e della Casa del Fascio dove venivano loro tolti documenti e denaro, oltre agli scarponi. Dopo un sommario interrogatorio erano presi in consegna dai Tedeschi e condotti, su due autocarri, a Carozzo-Valeriano (La Spezia), dove si trovava il comando della Festung Brigade 135 (135ª Brigata da Fortezza al comando del Gen. Almers), da cui dipendeva il presidio di Bonassola. Oltre alla 135ª Brigata da fortezza i Tedeschi avevano alla Spezia, nella zona AmegliaBocca di Magra (SP), dove i 15 prigionieri americani venivano successivamente trasportati, un notevole complesso militare in quanto si trattava dell’ultimo tratto di costa pianeggiante del Tirreno, ai margini della Versilia, dove fosse possibile uno sbarco anfibio in forze. I Tedeschi temevano infatti che gli Alleati, dopo Anzio e Nettuno, potessero sbarcare molto più a nord, al confine tra la Toscana e la Liguria, in tal modo avrebbero potuto puntare direttamente alla Pianura Padana ed al cuore industriale dell’Italia, la Lombardia, determinando il crollo immediato del già traballante regime di Salò e portarsi in breve ai confini del Reich. A Bocca di Magra erano così accantonati due reparti di fanteria, poco più all’interno, in località “La Ferrara”, un reparto di artiglieria ed a Punta Bianca un deposito, una batteria ed un Comando Marina presso il quale i prigionieri, scalzi, venivano infine accantonati.

5 –

A questo punto si inserisce una possibilità di fuga offerta, secondo le risultanze del processo Dosler, agli Americani da un ufficiale di marina tedesco che aveva riconosciuto tra i quindici prigionieri un giovane addetto ai rifornimenti portuali prima della guerra quando l’ufficiale navigava su un’unità mercantile. I due si erano conosciuti, circostanza eccezionale e quasi incredibile, in un porto degli Stati Uniti; l’americano riforniva di ghiaccio il mercantile tedesco dell’ufficiale. Quest’ultimo, rimasto solo con i prigionieri, lasciava loro la sua pistola sempre che gli Americani, tentando la fuga, promettessero di non uccidere nessun militare tedesco. Il tentativo si verificava poco dopo durante un trasferimento su
un autocarro ma era sventato dai militari tedeschi di scorta. Comandava il LXXIII Corpo d’Armata che aveva la responsabilità della zona costiera da Livorno a Genova, il Ten. Gen. Anton Dosler che ordinava l’immediata fucilazione dei prigionieri, prendendo alla lettera un ordine di Hitler (il “Kommando Order”, un “ordine diretto” del Furher per l’immediata fucilazione dei Commandos catturati), cosa che avveniva alle 5 del mattino (ma secondo testimoni oculari di Ameglia qualche ora dopo) del 26 Marzo a Punta Bianca, nei pressi del deposito tedesco. Allineati contro un muraglione i 15 militari dell’U.S. Army vengono fucilati in due gruppi da un plotone d’esecuzione di fanteria al comando di un capitano, in spregio al diritto internazionale e ad ogni legge di guerra. Nel frattempo era stato ordinato ad alcuni operai della Todt, al lavoro per costruire postazioni e depositi interrati di munizioni, di preparare in località “La Ferrara”, lungo la strada provinciale AmegliaBocca di Magra, uno scavo. Là furono trasportati con un autocarro (i corpi raccolti con delle tavole e gettati alla rinfusa, tavole comprese, nella fossa comune) i 15 fucilati, ritrovati a guerra finita dai commilitoni dell’OSS che ne stavano ricercando le tracce. Li guidava il Ten. Albert Materazzi, il loro comandante. L’esumazione veniva fatta da alcuni uomini del posto sotto controllo americano ed i corpi venivano ritrovati in divisa, senza scarpe, senza documenti, mentre tutti avevano un fazzoletto ed uno aveva ancora in tasca un pacchettino impermeabile con del denaro, sfuggito alle perquisizioni. Gli Americani non persero tempo e nell’ottobre 1945 misero in piedi a Roma una Corte Marziale per giudicare i colpevoli dell’eccidio. Si tratta di uno dei primi processi del genere organizzati in Italia per giudicare militari responsabili di crimini di guerra. Il processo contro Dosler (che era stato catturato in Cadore il 3 maggio 1945), come testimoniato in un drammatico “Combat Film”, ampiamente censurato dall’FBI, venne celebrato dall’8 al 12 ottobre di fronte ad una corte militare americana formata come di consueto da cinque membri; vennero sentiti come testi sia il Ten. Albert Materazzi (all’epoca del processo Capitano ed in forza all’Istituto cartografico di Washington, probabilmente un ufficio di copertura dell’OSS), che alcuni ufficiali di marina tedeschi, un milite della Brigata Nera di Bonassola ed il Gen. Dosler. La sentenza di morte venne presa con tre voti favorevoli contro due e l’ufficiale venne fucilato presso Aversa (CE) la mattina del 1° dicembre 1945 davanti alle cineprese militari. Dosler era così il primo generale tedesco ad essere fucilato per crimini di guerra. Secondo Albert Materazzi e recenti studi, il 25 marzo sarebbe stato alla Spezia lo stesso comandante in capo tedesco Maresciallo Kesserling in giro d’ispezione ai reparti costieri e quindi si ritiene che l’ordine di fucilare i militari italo-americani sia stato da lui conosciuto e approvato.

Pierangelo Caiti