(da Ameglia Informa di aprile 2024)

VI SPIEGO PERCHE’

Eccetto il periodo resistenziale, alla gente del Golfo non è mai venuto in mente di costruirsi una propria epopea traendone lo spunto dalle vicende della sua storia o dalla fisiologia che la landa che abitano tuttora offre generosa e ancor più prima che l’industrializzazione sconvolgesse quel piccolo Eden che era l’ampia insenatura che ci bagna. Eppure, i Greci l’insegnano, possedere un’epica è importante perché fortifica nell’appartenenza e aumenta nella consapevolezza.

Purtroppo, gli antenati non hanno creato delle figure eroiche che sono diventate leggenda per le loro azioni.

Basta pensare ad Alberto Picco, primo capitano della prima partita ufficiale dello Spezia in cui realizzò la prima segnatura e che poi la morte contro la mitraglia austriaca ha sublimato facendolo mito eponimo, almeno dello stadio.

Pari sorte ha avuto Virginia Oldoini. Da bimba la chiamavano “la Rapallina”, spesso trascurando la doppia che il dialetto scempia: i Rapallini, proprietari terrieri, erano suoi parenti. Oggi è per tutti la Contessa di Castiglione l’eroina del Risorgimento che riuscì con le sue arti seduttive a convincere Napoleone III a intervenire a favore del Piemonte contro gli Asburgo d’Austria.

Già questo ci lascia dubbiosi. Ben altri motivi suggerivano alla Francia imperiale l’alleanza con il Regno di Sardegna. Gli occhi dolci di femmine affascinanti, a cominciare da quelli di Elena che incantarono Paride, funzionano solo nelle favole o, appunto, nell’epica ché le guerre si combattono per ben altri motivi: gli esempi, purtroppo e ahinoi, non mancano.

Del resto, la saga di Virginia inizia ben dopo che Nicchia (era uno dei suoi nicknames) se n’era andata.

Tuttavia, non appena la fama del suo nome cominciò a diffondersi, la gente del Golfo che fino a quel momento se n’era disinteressata, la elesse a propria icona, un ruolo che il successo di fortunate trasposizioni cinematografiche e televisive (penso allo sceneggiato “Ottocento” tratto dall’omonimo romanzo di Salvator Gotta con una Virna Lisi che sconvolse la mia fantasia adolescenziale) amplificò.

L’astro di Virginia, figlia del Marchese Filippo, diplomatico di carriera, e di Isabella Lamporecchi, nobildonna toscana, decolla nel 1853 quando la corte torinese si trasferisce alla Spezia per le bagnature estive. La Regina Maria Adelaide ha bisogno di riprendersi dalle fatiche dei parti e si sceglie la Spezia: perché qua e non Nizza, possedimento savoino da secoli, non è ben chiaro.

C’è chi pensa che allora ci fosse una vocazione turistica del Golfo ma il fatto che già da una decina d’anni gli si ipotizzasse un futuro militare sconsiglia questa ipotesi e del resto avvenimenti ancora più recenti confermano le perplessità sulla destinazione del territorio a industria del forestiero, come dicevano al tempo.

Fato sta che la Corte sabauda si trasferisce alla Spezia occupando in toto l’appena costruito palazzo Da Passano dove s’era installato l’Hotêl Croce di Malta.  L’edificio che oggi ospita la Fondazione, aveva ingresso in via Principe Amedeo (oggi Minzoni). La via Chiodo non esisteva e il lussuoso albergo aveva ai lati dell’imponente corpo centrale due ali: a ovest l’impianto dei bagni termali e nel lato opposto le scuderie. In alto, a dominare la scena, il Castello e il Forte di Santa Caterina, la Bastia dove oggi è il campus universitario.

Lì, dunque, sta la corte e ciò spiega perché Wagner alla Spezia in quei giorni si deve accontentare di una locanda.

Furono, comunque, giorni di festa e cotillons dove scintillò la giovinezza della sedicenne Virginia. Lo conferma nelle sue memorie il generale Enrico Della Rocca, aiutante di campo di Re Vittorio, che lamenta una certa noia nello stare qua molto mitigata, tuttavia, dalla “straordinaria bellezza della Signorina Virginia” di cui ogni maschio “spia ogni passo girando attorno alle cabine dove ella andava a prepararsi per il bagno”.

Lei, già esperta seduttrice a dispetto dell’età, si cela alle loro occhiate “avvol-gendosi in duolici e anche triplici veli”. Nicchia è ben conscia della sua malia che amplifica non mettendola in mostra ma anzi occultandola. Il ragno tesse la tela e attende paziente che una vittima resti intrappolata nei fili che intreccia per farla sua preda.

Francesco Verasis, Conte di Castiglione, è un giovane ed importante dignitario della Corte. Già vedovo a dispetto dell’età, è presto imprigionato dal fascino di Virginia che chiede in sposa. La proposta è prontamente accettata.

Alla giovane si schiudono le porte del gran mondo della Corte di Torino e anche di imparentarsi con Camillo Benso Conte di Cavour che del marito era stato tutore e che da qualche mese era salito alla massima carica di Presidente del Consiglio dei Ministri.

Cavour, cui erano ben note le attrattive femminili, intuisce le capacità e le aspirazioni della parente appena acquisita e pensa di utilizzarla spalancandole le porte di un mondo da favola: la Corte imperiale di Parigi; “una bella contessa è stata arruolata, scrive ad un collaboratore, nella diplomazia piemontese. Io l’ho mandata a coqueteur (civettare, Cavour scrive in francese, lingua ufficiale a Corte) e se ci riesce a sedurre l’Imperatore.” Non paia questa una contraddizione con quanto scritto in precedenza: le guerre non le suscitano delle labbra ardenti ma un sorriso malizioso può a volte essere il lubrificante che ci vuole per mettere in moto un ingranaggio cui basta solo una spintarella per andare in funzione.               (segue)

Alberto Scaramuccia