(da Ameglia Informa di giugno 2025)

“Le miniere di lignite della piana di Luni” è il titolo di un libro di Giuseppe Passarino, stampato nel 2005 da Luna Editore, di Paolo De Nevi. Passarino, aveva documentato in precedenza le miniere di Deiva Marina, Cerchiara-Borghetto Vara-Pignone e Carro, tutte in Provincia della Spezia. Quelle della piana di Luni, si trovano nei comuni di Santo Stefano, Sarzana, Fosdinovo, Castelnuovo, Ortonovo (ora Luni) e Carrara.
In quest’articolo, mi occuperò di quelle di Castelnuovo Magra, che in qualche modo hanno riguardato anche la mia infanzia. La storia dei filoni di lignite, inizia circa due milioni di anni or sono, quando il grande lago che occupava il territorio attuale fra Santo Stefano e Luni iniziò ad impaludarsi. Era nato circa 8 milioni di anni prima, quando si era formata la fossa tettonica che tuttora determina il bacino del basso Magra. L’impaludamento del lago, era dovuto anche alla grande mole di sedimenti portata dal fiume Vara dentro al Magra. Infatti, prima di allora, le colline del Termo, sopra La Spezia, non esistevano e il Vara sfociava direttamente nel Golfo. Successivamente, una fase di sollevamento orografico delle colline spezzine determinò l’assetto attuale.
Durante la fase d’impaludamento del lago di Sarzana, una vegetazione lussuriosa formata da piante di vario tipo, quali platani, betulle, pioppi e carpini, trovò la propria fine dentro le acque poco profonde. Da allora, ingenti quantitativi di legna furono accumulati, sepolti e trasformati per carbonizzazione in lignite. Nel frattempo, venne formata la prima piana di Luni e la foce del fiume Magra si spinse ben oltre l’attuale Punta Bianca, grazie all’abbassamento del livello dei mari causato dalle glaciazioni.

Infine, terminata l’ultima Grande Glaciazione, la linea costiera arretrò da 10.000 a 4.000 anni fa fino a Boceda di Sarzana, riprendendo ad espandersi solo dal Medio Evo ad oggi. La Piccola Era Glaciale, provocò nel Diciottesimo Secolo frequenti esondazioni nella piana di Luni, che costrinsero gli abitanti a realizzare notevoli lavori di regimentazione di canali e fossi. Durante questi lavori, a metà del secolo stesso, venne casualmente alla luce un primo banco di lignite. Fu prontamente sfruttato, per ovviare all’inconveniente dell’eccessivo taglio degli alberi al fine di ricavarne carbone di legna per vari usi. Il primo giacimento, venne scoperto fra Sarzanello e San Lazzaro, ma poi il banco complessivo venne individuato fra Santo Stefano ed Avenza. (segue)
Sergio Marchi
(da Ameglia Informa di luglio 2025)
In effetti, da allora ogni volta che nel territorio dalla confluenza fra Vara e Magra al corso del Parmignola si è affrontata un’opera infrastrutturale di un certo rilievo, sono stati scoperti sempre nuovi strati di lignite. In questo contesto, nella pianura ai piedi di Castelnuovo Magra ne venne trovata una porzione nella frazione di Molicciara. La qualità di quella lignite, si rivelò fra le migliori trovate in Italia, con caratteristiche che l’avvicinano al litantrace, quindi con tempi di fossilizzazione maggiori. Lo stesso si può dire del successivo ritrovamento, nei pressi di Molicciara, in località Colombiera. Attualmente, a ricordarci questa attività sono rimasti il nome del centro commerciale di Molicciara, “La Miniera” e via Carbone alla Colombiera.
A via Carbone, sono legati miei ricordi da bambino e poi adolescente negli anni sessanta. In quel periodo, i miei genitori mi portavano di tanto in tanto a trovare dei parenti per parte di madre, abitanti veri e propri tuguri affacciati intorno ad un piazzale che era stato una discarica di materiale esausto. Erano stati da poco chiusi i pozzi minerari, il piazzale portava ancora le tracce delle estrazioni recenti e da lì si partiva un canale secco che passava sotto via Carbone. Ricordo l’impressione che mi faceva, soprattutto d’estate, la visione delle fiamme che salivano da quel canale. Era l’effetto del gas che esalava dalle scorie residue di lignite, un polverino che s’incendiava per autocombustione.
In quei tempi, l’argilla sottostante veniva “cotta” da questo fenomeno, assumendo un aspetto di mattone. La colorazione rossastra, detta “marciaferro”, ne faceva oggetto di prelievo da parte di varie società produttrici di laterizi. Fra le prime, le Fornaci di Filippi, le più prossime. E proprio a queste è legato il ricordo più doloroso. In via Carbone, la nonna materna aveva ricevuto in eredità un appezzamento di terreno, che il nonno aveva provveduto a dividere fra mia mamma e sua sorella. In più, il nonno, che era un bravo muratore, aveva iniziato a costruire sulle due parti due casette di ugual misura, proprio con i mattoni delle Fornaci Filippi.
Fu durante tale opera che, esattamente sessant’anni fa, agli inizi del mese di giugno 1965, mentre con la moto tornava dal cantiere verso casa, venne ucciso in un tragico incidente stradale sull’Aurelia, proprio di fronte alle Fornaci di Filippi! (segue)
Sergio Marchi
(da Ameglia Informa di agosto 2025)
Il “carbone di sasso”, come chiamato a quei tempi il carbon fossile, venne scavato in quel di Caniparola a partire dal 1786. L’esportazione a Livorno di questo minerale, diede un buon ritorno economico fino al 1826, quando furono aperti i pozzi della Colombiera. Dal 1838, questi servirono la fonderia di San Pier d’Arena e i piroscafi del genovesato, localmente i forni da calce e successivamente le fornaci per laterizi.
Poi, dal 1859, fu la volta di Sarzanello, che procurò materiale per lo stabilimento di Pertusola e i cantieri di Muggiano. Dopo aver totalizzato un massimo di 12.478 tonnellate estratte, nel 1883, la produzione cominciò a scemare fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Durante questo conflitto, i lavori ripresero a farsi più intensi, in particolare a Molicciara, con l’impiego dei prigionieri di guerra.
Tornata la pace, il complesso minerario lunense ebbe una ripresa nel periodo 1926-1935, ma non raggiunse mai più i livelli ottocenteschi, con un massimo di 2.335 tonnellate nel 1927. Tuttavia, bastò ad alimentare non solo la Centrale del Latte di Colombiera ma anche le centrali elettriche di Genova, Firenze e Siena. Da Caniparola, si estrassero un massimo di 1.190 tonnellate nel 1929. Vennero poi riattivate altre attività di estrazione in tutta la bassa Val di Magra, e in effetti le cose migliorarono fra il 1936, con 3.200 tonnellate estratte e l’impiego di 93 lavoratori, e il 1939, con ben 24.300 tonnellate e 500 lavoratori.

Poi, ci fu la Seconda Guerra Mondiale, con la successiva occupazione dei tedeschi nel 1943 ed il loro sabotaggio industriale nel 1944. Terminata la guerra, a partire dal 1947 ci fu una temporanea ripresa delle attività estrattive, con 600 lavoratori, ma il destino del carbone lunense era ormai segnato. Ironia della sorte, in quell’anno venne inaugurato il Nuovo Cinema Luni, e quale fu il titolo del primo film proiettato? “La via del petrolio”! Per qualche anno ancora, la lignite di Luni venne impiegata nella industria cementizia, allora in piena espansione, poi anche questa preferì adoperare il petrolio, più a buon mercato. L’usura delle strutture degli impianti minerari, non sufficientemente risarcita dagli interventi di ripristino, costrinse questi alla chiusura, nel 1953.

D’altronde, nel 1956 ci fu anche il crollo dei titoli minerari alla Borsa di Londra, quindi un ultimo tentativo di riapertura delle miniere lunensi, a partire dal 1957, non poteva avere successo e infatti nel 1963 ne venne sancita la definitiva rinuncia. Un altro fattore, che incise non poco in questa vicenda, fu il tributo di vite umane pagato dai lavoratori del carbone lunense. Bastino pochi dati. Fra il 1856 e il 1908, si verificarono 11 morti, soprattutto a causa di esplosioni del grisou (una miscela di gas metano e aria) dentro le gallerie. Fra il 1935 e il 1948, i morti furono ben 35, di cui 11 nella sola tragedia del 19 agosto 1945. Nel 1949, un embrione di “coscienza ecologica” portò il Comune di Fosdinovo a denunciare le attività estrattive per l’inquinamento del torrente Isolone. Ma ci furono pure dei belli episodi di altruismo e solidarietà, anche ripagati, come nel 1951, quando dalle miniere lunensi vennero inviate tonnellate di lignite per gli alluvionati del Polesine.

Ma torniamo, per finire, al 1953, l’anno della chiusura, per ricordare l’episodio dei “sepolti vivi”. Vennero così nominati quei 21 minatori che si chiusero di loro volontà nelle gallerie a oltre 100 metri sottoterra, a partire dal 24 gennaio, 24 ore al giorno. Estrassero 30 carrelli di lignite al giorno per tutto il tempo che rimasero sotto e furono confortati dalla presenza del loro direttore, che veniva a dormire con loro tutte le notti. Ebbero la solidarietà del popolo, di tutti i sindacati, ricevettero aiuti di ogni genere anche da Toscana ed Emilia. Non mancò loro la solidarietà da molte aziende del territorio, da tutti i minatori d’Italia e anche dall’estero, ma nel giorno 11 febbraio dovettero lasciare il loro presidio, anche per incipienti motivi di salute. Vennero accolti da una grande folla come degli eroi e così terminò la storia delle miniere di lignite del piano di Luni. (fine)
Sergio MarchiI